Design oltre la modernità

DESIGN OLTRE LA MODERNITÀ

«Ci fu un tempo dove un certo ordine regnava sulle forme, qualunque esse fossero, materiali o immateriali, morali o tecniche. Questo ordine (kosmos) dava un senso unitario a un certo mondo, senso che governava la collettività, ma che ciascuno poteva comprendere e che tutte le forme esprimevano alla loro maniera. Questa unità di senso è scomparsa con la modernità: a un mondo chiuso è succeduto un universo infinito di possibilità, e le libertà individuali si sono scrollate di dosso i vincoli comunitari[…]» Augustine Berque, École supérieure d’art et de design de Valenciennes, 19 mai 2016.

Il passo sopra trascritto è preso dall’abstract della comunicazione tenuta dal filosofo e geografo francese Augustin Berque dal titolo: Cosmiser à nouveau les formes? tenuta all’interno della sezione di lavoro No transition. Design en situation de crise. È questo un argomento che mi appassiona e che mi vede coinvolto da diversi anni, prima nel lavoro e ora nella scuola. Proverò a tratteggiare i termini del discorso fornendo alcuni spunti, senza la pretesa di una qualche verità, infatti, uno schizzo non può che può essere un accenno o un inizio, quindi, l’approfondimento è d’obbligo.
Quel tanto che serve al mio scopo, interpretato liberamente, affonda le radici molto lontano nel tempo, a partire dalle elaborazioni filosofiche di Platone e Aristotele sulla poiesis e sulla nozione di techné, fino ad arrivare alle riflessioni moderne che trovano nel filosofo Heidegger uno sviluppo definito con il saggio L’origine dell’opera d’arte e, in seguito, nel saggio Questione della tecnica. Riassumendo potremmo individuare nelle categorie di strumentalità e causalità gli effetti ricorrenti che s’intrecciano tra l’utilità (lo scopo) e il segno formale che l’oggetto (strumento) trascina con sé. Va da sé che il tutto il costrutto umano si esprime nel porre scopi, plasmare e usare mezzi. Non rientra tra le finalità di questo scritto, dal momento che per quanto mi concerne tutto deve essere oggetto di esperienza e di rivalutazione personale, addentrarsi nelle ragioni che hanno via via marcato lo svolgersi dei discorsi e delle contrapposizioni tra le categorie dell’arte e della tecnica; qui piuttosto, ci interessa intrecciare il discorso tra la scomparsa del poema del mondo e la presa egemonica della modernità in cui si evidenzia tragicamente l’assenza della mancanza di mondo.

Seguendo l’orizzonte del discorso proposto da Augustin Berque, la questione della perdita del poema del mondo parte lontano nel tempo, e cioè da quando la storia dell’umano si separa dalla cosmologia, ovvero dalla relazione circolare che si esprimeva nell’appartenenza a un ordine ontologico/simbolico fondato sulla comune appartenenza dell’uomo, e delle forme da lui costruite, a un universo cosmologico. Era il tempo dove tutte le forme dell’esistenza umana sulla Terra, la realtà umana, esprimevano simbolicamente una tensione comune, un senso comune di mondo (sentire/evocare) che è scomparso nella nostra società del benessere… Quelle forme che riconosciamo ancora oggi, attraverso la lettura storica, come belle e buone se rapportate al principio di meccanicità che pervade l’universo del moderno occidentale che si è diffuso su tutto il pianeta e inglobato le diverse culture espresse storicamente nella geografia terrestre. Per questo mi domando se riportare le ragioni del cielo, nel tempio sulla Terra, può essere il compito da prendere in carico per oltrepassare la modernità e restituire alla vita quello che questa ha oscurato. Dobbiamo, in qualche modo, partire concretamente dalle necessarie contingenze che hanno fatto passare l’umano dalla pura esistenza biologica (la biosfera) alla vita abitabile, elaborando il senso della reificazione del territorio che ha permesso all’uomo di fare della Terra la propria dimora. Si tratta di comprendere il passaggio abissale che ha separato l’umanità da un abitare passo a passo con il mondo a un abitare indifferenziato e artificializzato meccanicamente.

Secondo Berque il passaggio cruciale che ha generato nell’uomo occidentale la separazione tra il soggetto e la naturalità che lo istituiva, è stato quello da lui definito il principio del monte Horeb. È da lì che è passata la decosmicizzazione (la co-appartenenza tra l’uomo e l’insieme che lo istituisce in quanto essere biologico) che ha originato storicamente il discorso della modernità come paradigma dell’appropriazione del mondo. Il monte Horeb è una montagna del deserto del Sinai, il luogo dove, secondo le scritture, il patriarca Mosè ha fatto il suo incontro con Dio. Sta scritto nella Bibbia che Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono, e tu dirai (alla tua gente) che Io sono mi ha inviato verso di voi. Per Berque è l’inizio del nuovo racconto del mondo, racconto che ha concesso all’Io sono di ergersi a padrone e signore del cielo e della terra, escludendo il Noi dal racconto moderno. Viaggiando velocemente, e per sommi capi, attraverso la storia delle idee giungiamo a tempi cronologicamente prossimi a quelli che daranno conferma e significato al paradigma occidentale moderno classico; la versione ufficiale, vuole che con Cartesio (il suo Cogito ergo sum) si strutturi l’essenza di un essere che si produce nello spirito separato dal corpo e dalla materia naturale.

Eccoci, dunque, al nocciolo della questione. L’auto-fondazione trascendentale del soggetto moderno, il quale, per essere e quindi agire non ha alcun bisogno del legame terrestre, poiché come Dio, egli diviene soggetto/predicato di sé stesso. Significa che nel prendere coscienza della sua particolarità il soggetto moderno si affranca definitivamente dalla cosmicità-naturalità, presentandosi, di conseguenza, come un essere che è al di là del suo essere natura. Così, la Terra, attraverso i dispositivi via via messi in atto dalla tecnica, diventa il luogo del suo cimento (la Terra come oggetto da utilizzare ai propri fini) non importa con quali mezzi e a quale prezzo per l’insieme della biosfera. All’apice di questo processo vediamo ridotta la Terra, e tutto il suo insieme, a semplice estensione oggettuale, trasformata e saccheggiata ai fini esclusivamente umani, decimate le altre specie viventi (vegetali e animali), sconvolto, forse, in modo irreversibile il clima del pianeta, per carità omettiamo l’elenco interminabile delle distruzioni.

Che fare? A meno che noi non vogliamo dirigerci verso mete che non conosciamo, dobbiamo re-imparare la nostra appartenenza terrestre ed esprimerla attraverso le forme del nostro abitare, come dice Berque: Recosmisons le formes! Come fare? Iniziamo a riflettere sulla nostra reale natura e rigettiamo il principio del monte Horeb. Di fatto, ogni cosa che noi facciamo si relaziona con l’ambiente naturale e l’ambiente naturale è imprescindibile dalla nostra esistenza come esseri biologici. Le cose che utilizziamo, le azioni che facciamo non toccano soggettivamente la sola esistenza umana, ma partecipano dell’insieme ambientale, il nostro corpo animale è parte di questo insieme ed è la vera dimora dell’essere umano. Certo il percorso storico dell’uomo è particolare e il suo abitare non è puramente un abitare ecologico. Infatti come dice Augustin Berque il suo abitare è eco-tecno-simbolico (dovrebbe esserlo) e onto-cosmogenetico. Ne consegue, almeno per quanto ci riguarda, che le forme del nostro vivere non sono solo semplici oggetti, semplici fantasmi, sono le forme concrete del nostro essere nel mondo che è necessariamente sociale e terrestre allo stesso tempo. Da qui nasce l’obbligo del designer in quanto essere umano sulla terra: créer de telles formes. Significa innanzitutto sentirsi intrecciati con l’ambiente, non separati, non duali. Il compito che dobbiamo affrontare sembra immane e, per la maggioranza di noi, non pare competere al singolo, infatti troppo insignificante è l’agire individuale se rapportato al movimento dell’insieme. Dunque, un ritorno al passato è inimmaginabile, tale è, che al punto in cui ci troviamo un fermo immagine portato al sistema nel suo insieme significherebbe il caos sociale dovuto al crollo dell’apparato economico. Suggerisco, umilmente, di attenerci a quanto sta nelle nostre possibilità di creatori di forme e provare a uscire dall’irresponsabilità del tutto è possibile in ogni forma e luogo, cominciando dal lavorare intorno ai valori che possono rinnovare il circolo delle buone forme. Guardare alla storia e riprendere il ‘discorso’ interrotto a partire dalla giusta misura equilibrando, in misura sostenibile, la messa in opera delle forme all’ecosistema della natura. Facciamo in modo che il nostro fare, con i sistemi tecnici e simbolici contemporanei, sia portatore di visioni etiche ed estetiche responsabili, fondate sul rispetto dell’ambiente e su un possibile positivo racconto umano del mondo. Non di meno, visto che non ci dichiariamo stupidi, sappiamo come riconoscere il potere del sistema della tecnica e del pervasivo consumismo che rigetta tutto ciò che non produce profitto. Avviamoci, dunque, e con fiducia, a oltrepassare la modernità, che non sarà, me lo auguro, l’elaborazione di un concetto isolato, ma il compito accordato al designer genuinamente creativo: il designer che rispetta il mondo dato in custodia all’uomo. Aria fritta… direi di no, poiché seguendo, senza accettare o proporre qualsiasi cosa dal momento che ognuno di noi dovrebbe essere libero di fare come gli pare, queste tracce, si potrà sempre fare del buon “design alimentare” applicandosi con passione e consapevolezza nel proprio lavoro.

Pietro Giorgio Zendrini

25 Novembre 2016