Nella sostanza, nello spirito, la forma aperta del Paesaggio

Nella sostanza, nello spirito, la forma aperta del Paesaggio
di Pietro Giorgio Zendrini

Paesaggio Nella definizione corrente comprende le forme naturali e le costruzioni antropiche in continua trasformazione, e il prevalere dell’una o dell’altra rappresenta la misura in cui il soggetto (umano) si espande in termini di proiezione, di incorporazione con il mondo delle cose, della natura.

O mio amato fiore
Epico dramma del paesaggio
Oh, orizzonte dell’aldiquà
Qualcosa dove il fiore sfiorisce

Bastano poche parole per far affiorare la dualità: da una parte il soggetto, dall’altra il “tutto”. Indubbiamente per cogliere l’ermetico segno metaforico offerto dalla strofa è necessario “vedere-ascoltare” per seguire quel flusso di figurazioni che confluiscono nell’incorporazione simbiontica con la sostanza delle cose fino al punto dove queste si con-fondono. Il reale, è noto, altro non è che la proiezione dello sguardo che lo scruta, che lo interroga, ed entra in ascolto espandendo il sé fino al punto di non farlo coincidere con i nostri interessi immediati lì dove l’utilità etica dell’uomo è la purificazione dalle utilità soggettive. Ciò detto, per offrire una ricostruzione approssimata della ‘Nascita Paesaggio’ è necessario citare almeno le due correnti fondamentali. Da un lato troviamo l’Arcadia del mondo simbolico greco-romano, il mondo di Pan il dio dai piedi di capra protettore dei pastori e delle greggi. In seguito, con la presa della “cristianità”, questa rappresentazione della natura personificata dalle divinità naturali va poi dissolvendosi riemergendo come relazione tra l’essere e il divino nella condanna dello spettacolo del mondo a beneficio dell’introspezione religiosa; più in là le contraddizioni tra la dimensione introspettiva e l’emozione suscitata dal paesaggio osservato iniziano a dipanarsi per confluire, con la descrizione fatta da Francesco Petrarca nella lettera “Ascesa al Monte Ventoso” del 1336, nella completa accezione contemporanea. Dall’altro lato in oriente per la prima volta al mondo, in Cina nel IV secolo, Shanshui (translitterazione degli ideogrammi montagne e acque) diviene la parola per definire il paesaggio: «Zhi yu shanshui, zhi you er qu ling» – Quanto al paesaggio, tutto possiede sostanza (forma materiale), esso tende verso lo spirito (anima, mente) – scrive Zong Bing (375- 443) in quello che fu il primo trattato sulla pittura del paesaggio nella storia dell’umanità (cfr. Histoire de l’habitat idéal, de l’Orient vers l’Occident A. Berque, p. 112). Shanshui “le montagne e le acque” e in queste acque della montagna trovano riparo i geni della natura. Il riparo del sacro: la sostanza e lo spirito nella loro purezza.

A questo punto si può ben dire che per contemplare la natura bisogna avere a disposizione i contenuti ‘valoriali’ idonei a concettualizzarla e questo implica, perlomeno è quello che mi sembra, appartenere a una condizione sociale elitaria in grado di interpretarla come globalità. La contemplazione intesa come raccoglimento diviene il presupposto senza la quale non si può ‘guardare’ l’ambiente come paesaggio assegnandogli caratteri chiaramente simbolici. Sono state le elites dotate di sufficiente sensibilità, antiche e contemporanee, che si sono arrogate il diritto di classificare le cose, predisponendo quell’apparato culturale di gusto e di immaginazione necessari ad appropriarsi del “bel vedere” , ovvero dell’estetica del paesaggio confluente sovente nell’estetica del sublime (poetica del romantico); senza tralasciare il deformante lavorìo che porta alla formazione degli stereotipi del paesaggio declinati nel ‘formalismo del pittoresco’ e del kitsch.

Riprendendo per sommi capi un pensiero di Pierre Bourdieu come fa lo sguardo del viaggiatore o del turista che osserva il paesaggio come paesaggio, come decoro, paesaggio senza abitanti e colture senza coltivatori. Emerge una definizione del paesaggio di tipo “estetico-percettiva” che lascia poco spazio a un approccio valoriale a base “ecologico-ambientale”; un contesto, questo, che senza troppe indulgenze si allarga fino a quantificare, a finalità turistiche, il “Valore monetario del paesaggio” in modo da separare il paesaggio degradato da quello salvaguardato e promosso “culturalmente” e paesaggisticamente. Va da sé che, attraverso vari livelli conoscitivi, il paesaggio viene percepito da ciò che il soggetto è, di conseguenza il territorio-paesaggio non può che essere determinato dalla proiezione dell’immagine mentale di chi lo ha costruito-reificato. Si può cogliere in questa breve digressione come sia necessario, per confrontarsi con la definizione di Forma Aperta del Paesaggio, accedere a una costruzione-fruizione-percezione del paesaggio elevandosi al di sopra della logica quotidiana del vantaggio e dello svantaggio.

[…]

Paesaggio nella Sostanza La giusta condizione per un approccio sincero alla prospettiva ‘sostanziale della forma del paesaggio’ dovrebbe essere ricercata nell’area di contatto tra il soggetto e il mondo, là dove l’essere liberato dalla prospettiva egocentrica lascia emergere quello che le cose hanno da dire, null’altro che, mettersi in ascolto per essere vicini alla sostanza delle cose.

Milieau / Muro di pietra e di mano
Lucertole danzanti
Afferrare usare non dare mai nomi
Così com’è è sufficiente

Affiora dalle parole della strofa una pervasiva sensazione, come se, lasciando la presa dell’io, ci si lasciasse fluire in una condizione di profondo abbandono poiché il tutto converge nell’unità. Il ‘campo’ attivo e mentale suggerito appare come un gioco di parole, ma c’è sostanza, e proprio l’ovvia evidenza della sostanza non ammette ambivalenze. Così stanno le cose o almeno lo sono state. Nel contesto evocato dai versi, il Paesaggio rurale, nessuna simulazione è consentita; infatti, il risultato di questo lavoro ‘di pietra e di mano’ è stato essenzialmente quello di insediarsi e mettere a coltura le terre. Oso dire che, a queste condizioni, la ‘sostanza che si fa forma’ non può nemmeno essere definita Paesaggio poiché è assente la rappresentazione mentale della visione estetica proiettata sul territorio. D’altro canto mi è difficile credere che questa sia stata una condizione di sola oggettività, considerato che lo stato vernacolare è pur sempre l’espressione di un mondo umanizzato laddove nella continuità delle credenze e delle abitudini trasmesse dagli insegnamenti orali prevale (ha prevalso) la sostanza delle cose.

Per vissuto personale ho sfiorato questo mondo, un mondo dove il tempo era scandito dall’evidenza del fare e dal mettere a frutto, senza abusarne, la ‘sostanza’ assecondandola al ritmo delle stagioni. «Uhh!!! Leeh!!!» «Vai! Fermo!» Così la voce del montanaro scandiva alla bestia da soma il tempo del lavoro. Un lavoro che ha materializzato i pendii montani di terrazzamenti, campi coltivati, prati, baite e abitazioni: il costrutto antropico nella sostanza. Sostanza-materia rispettata, coltivata, mai disprezzata e consumata per diletto.

Basta saper guardare-toccare un muro per percepire come a distanza di secoli ogni pietra porti con sé il gesto dell’uomo che l’ha posata. La pietra e il gesto sono stati nel contesto del paesaggio rurale un’unica realtà diveniente poiché l’immanenza del gesto è l’immanenza della pietra; opere eseguite senza alcuna intenzione estetica o nozione di paesaggio. Oggi ai nostri occhi, ma non agli occhi dei “cultori della rusticofilìa”, questa “sostanza” appare bella, così come lo sono stati i gesti nel mutevole movimento di trasformazione dello spazio-tempo e nel rapporto con l’elementarità della ‘sostanza’ e della forma frutto di un lavoro semplice e necessario. Il vivere semplice del montanaro è stato senza dubbio l’archetipo della dimensione ecologica nel suo rapporto con la Terra, tant’è che la sua condizione non gli domandava altro se non di vivere la ‘meravigliosa tragedia’ della sussistenza in una mescolanza di connessioni naturali e aspettative vitali. Mi sembra giusto, anche se potrebbe apparire superfluo, ricordare che siamo circondati da paesaggi progettati e costruiti  conformemente alla “cultura alta” per il bisogno di cercare significati nelle cose avvalendosi delle organizzazioni storiche di potere. Come sono innumerevoli le “presenze” materializzate dalla debordante potenza della tecnica che utilizza eccedendo nella ‘quantità’ la ‘sostanza’.

Osserviamo come questi costrutti storici abbiano una base comune fondata sull’equazione: più sostanza = più ricchezza. Chiaramente per coloro che intendono positivamente le trasformazioni operate da quella “cultura” non c’è niente di meglio che rispecchiarsi nei paesaggi raffigurati da Ambrogio Lorenzetti nell’affresco de “Il buon governo” a Siena. Comunque da qualsiasi punto di vista si osservi il paesaggio non occorre rammentare l’uso predatorio che si fa della ‘sostanza’ ai giorni nostri.

Testi sopra pubblicati sono tratti dal volume AA.VV. Simbionte, libereedizioni, 2017
Le strofe sono pubblicate in P. G. C. Zendrini, “Evidenza dell’ovvio”, liberedizioni, 2017