Bello, buono: classico?

Bello,buono: classico?
Pietro Giorgio Zendrini

Scuote l’anima l’arbitrio del bello,
Il gesto impeccabile.
Sacro e profano si danno del voi,
Simboli d’ogni tempo tramano.

            La gentildonna prima di sedersi nel posto libero al mio fianco chiede: -Permette?- È vestita in modo impeccabile: coordinata. Elegante, di un eleganza non ostentata, direi alto borghese: una signora distinta si usava dire una volta. Il suo portamento è di fatto inusuale e senza essere appariscente declina la sua classe, gusto e raffinatezza non sono cose familiari di questi tempi. E poi, questa circostanza mi invita a divagare almeno un poco sul significato del termine classico. Prima di avviarmi, però, devo descrivere l’abbigliamento a lusso della signora. E sul lusso non transigo: eliminare! Al diavolo il De Mandeville. Atene o Sparta. Frugalità o opulenza. Dipende da che parte stare (a poterlo fare).

La signora è di mezz’età, non troppo alta, dai lineamenti piacevoli, indossa un cappotto nero, con bordo manica bordato in pelle nera. Cappellino color cammello (di sicuro in cashmere), foggia a “kepì”, con visierina in pelle nera: capelli castani, raccolti sotto il cappellino (non sono sicuro). Borsa in pelle nera destrutturata con “dettagli design” in metallo. Tolto il cappotto (il riscaldamento funziona bene). Abito intero, color tortora, a tono con il cappello, bordatura inferiore dell’abito con striscia in pelle marrone, stivali alti in pelle scamosciata colore marrone. Mani curate e unghie prive di smalto. Anelli, non mi ricordo su quale dito, in oro punteggiati di diamanti (non sono un gioielliere quindi…). Orecchini in madreperla, foggia a disco, di colore marrone.

Seduta. Dopo qualche minuto estrae dalla borsa e inizia a sfogliare un libro molto sottolineato dal titolo: “La segnatura nella …” (non ho potuto leggere il seguito). Che dire, mi è parso un bel coordinato, un’opera mattutina di rappresentazione della propria condizione sociale ed economica della migliore società italica. Comunque, sul lusso sono stato perentorio e passo oltre, tanto più che l’abbigliamento della signora mi invoglia a esprimere qualcosa sulla bellezza e sull’estetica in generale.

Come ho detto poc’anzi provo ad accennare  un breve riassunto delle connotazioni collegate al termine classico a partire dalle definizioni date dal filosofo polacco Wladislav Tatarkiewicz (1886-1980).

Classico vale:

  • per denotare un valore, classico può valere di “prima classe”: perfetto, riconosciuto come modello (in opposizione a: imperfetto, mediocre);
  • per denotare un periodo cronologico, classico può essere sinonimo di “antico-greco-romano” (anche solo dell’apogeo della civiltà greca);
  • per denotare uno stile storico, classico può riferirsi ai moderni che si siano ripromessi la conformità ai modelli antichi;
  • per denotare una categoria estetica, classico può dirsi di autori e opere che hanno armonia, misura, equilibrio.

Nell’antica Roma, le “classes” dei cittadini romani nell’ordinamento serviano. Classicus cittadino per eccellenza che appartiene alla classis più elevata dei contribuenti. Per traslato, Tatarkiewicz cita Aulo Gellio uno scrittore del II secolo e.v. “classicus scriptor, non proletarius”.

Dunque, da queste definizioni si evince come il termine classico si relazioni con precise collocazioni storico-sociali, queste, fanno sì che per partecipare all’apparato del classico divenga indispensabile accedere, essere dotati, di una doppia attrezzatura: l’una culturale, nel senso della cultura colta, quella storicamente consolidata dalle regole di comportamento e della rappresentazione di quelle regole;  l’altra dipendente da una posizione economica che possa porre in essere la rappresentazione del classico. Classico, a mio parere, non può intendersi né come una condizione popolare né come un bene collettivo. Poiché, già l’astrazione del significato della parola classico mette in movimento il concreto che è fatto di struttura e sovrastruttura delle classi colte. Comunque, se non sbaglio, il classico (non siamo ai tempi dei principi ma nel tempo borghese) non è un dato acquisito, prende vita attraverso atti cognitivi che traslano dall’“economia materiale” all’“economia immateriale” per finire all’ “economia della conoscenza”. Ogni rampollo benestante, se si vuole educato al classico, va avviato in una qualche scuola d’elite.

Giunto a questo punto, mi sembra di aver lasciato intuire come sia venuto a formarsi il “senso del classico” nella storia e nella società contemporanea. Nondimeno, bisogna riconoscere come nella società contemporanea risulti difficile farsene un’idea e accedervi; non a caso la sovrastruttura colta, a partire dai primi anni del secolo scorso, ha lavorato alla sua demolizione e, oggi, la complessità e i modelli messi in circolo dal sistema “neoliberista” globalizzato hanno completato il lavoro. Di fatto, nella ridefinizione sociale della ricchezza è stato indispensabile selezionare comportamenti merceologici (è merce anche la cultura) accessibili alle più ampie fasce sociali senza troppi distinguo. E nemmeno tra i signori dai cognomi illustri è facile trovare una gentildonna, è merce rara non commercializzabile nemmeno dal “luxury brand” dei cinque stelle lusso; queste, le poche rimaste, se ne stanno nei loro rifugi o nelle ville padronali di campagna lontane dai circuiti stabiliti dai fanfaroni del lusso.

Problemi etici. Problemi estetici. Posizioni di parte, che altro, ma dal momento che sono implicato nel cercare un’alternativa al lusso, sia esso quello della conoscenza o quello sprecone e sgarrupato della mercificazione,   abbozzerò almeno un’opinione in merito pur avendo in tempi recenti già anticipato il mio pensiero (nel frammento “Mai fidarsi dei ricchi” a pagina trentasei del libro “Uno sciame dal confino”).  Proverò  a designare il classico associandolo a un suo supposto simbiotico: buono. Bene, ora posso travasare l’idea e la concretezza del concetto di classico dentro a una condizione non contaminabile dalle rappresentazioni elitarie colte e dalle mascherature stolte e riduttive della commercializzazione. In generale, la parola “buono” porta con sè un significato positivo, sia in azione che in astrazione,  in tutte le aree geografiche del pianeta: con ciò non intendo e non mi interessa riferirmi al buono individuale ed egoistico che sfuma nel gusto personale. Neppure prendo in considerazione il termine buono quando viene associato a un’azione militare o a un uso delinquenziale. Parteggio per un’idea di classico-buono che sia, sempre in azione e in astrazione, espressione di compassione amorevole. Un esempio ci viene dalla lingua cinese, buono in cinese è rappresentato dal pittogramma donna-bambino, l’ideogramma ha di certo  origine dall’idea di cura e protezione materna. Quindi  classico dovrebbe essere ciò che è buono e che si rivela nella disposizione alla cura della natura e della naturalità. Per traslato buono-classico è, secondo la mia interpretazione, associato al bello, alla giusta misura e al gesto impeccabile dato in consegna all’umano. Nel dialetto, la lingua materna che partecipa a questo scritto, non è mai esistita la parola classico, però esiste ed è stata viva e concreta la parola buono: (femm. bona). Un albero va tagliato in buona  luna, si semina quando la luna è buona, etc. In genere il montanaro ha cercato di vivere un buon rapporto con le cose del suo mondo. Avrò equivocato? è possibile. E se bastasse accedere all’umile per manifestare il classico?

In chiusura, per ricondurre la categoria del buono al classico, mi affido alla lingua Navajo e alla parola Hozo (cfr. Crispin Sartwell, I sei nomi della bellezza). In lingua navajo Hozo (bellezza, armonia, bontà) chiama e presentifica al mondo l’immanenza della partecipazione alla naturalità e fa abitare l’uomo in connessione reciproca con l’ambiente; lega le cose della natura nel loro insieme e riunisce gli esseri, tutti gli esseri. Hozo non è separabile dai concetti di bello, di equilibrio, di armonia e bontà; è quindi una parola che dispiega in essenza il buono, la cura materna, il rispetto, la compassione e l’immedesimazione con la natura. Forse sarà la mia  immaginazione a farmi credere che sia possibile aspirare a un buono-classico, rivoluzionario e arcaico insieme (lo scheletro araldico del classico) non contaminato dai poteri economici, statuali o religiosi, dal possedere e dall’avere personale. Un buono-classico o bello-appropriato, tale da risvegliare la nobildonna e il nobiluomo che stanno in noi  egualitariamente a disposizione per ogni “corpo”. Anche se sull’uomo incombe come spada di Damocle, la parola “dipende”!
A occhio nudo le stelle sono tutte uguali.

Pietro Giorgio Zendrini, Frammento n. 47 da Verbigerazione, c’era un vecchio sul treno,  Liberodiscrivere, Genova, 2016.